Roma, 20 aprile – Ci sono almeno tre buone ragioni per cui noi ambientalisti siamo favorevoli al biogas. La prima riguarda il contributo che la produzione di biogas può dare all’uscita dal fossile (e nell’immediato alla riduzione dell’utilizzo di fonti fossili), in quanto è una fonte rinnovabile (come le biomasse solide e liquide) non intermittente, che può produrre elettricità per tutto il giorno e tutto l’anno. Tanto che il biogas è una delle fonti energetiche più importanti per il raggiungimento in Italia degli obiettivi europei fissati dall’Unione Europea per il 2020 (20% di energia da fonti rinnovabili sul consumo energetico lordo e 10% sul consumo energetico finale nel settore dei trasporti), La seconda è che il biogas rappresenta una grande opportunità per l’agricoltura e l’ambiente, nella misura in cui concorre all’integrazione del reddito agricolo, alla valorizzazione dei suoi sottoprodotti che altrimenti sarebbero trattati come rifiuti tout court. La prospettiva migliore per l’agricoltura e l’ambiente, verso cui ci dobbiamo muovere, è quella dell’azienda multifunzionale. La terza riguarda il rilancio in Italia di politiche organiche per lo sviluppo della produzione di energia elettrica e termica da fonti rinnovabili. Dopo il V Conto Energia, che ha eliminato dallo scenario il vecchio modello di incentivazione delle fonti rinnovabili, non ci possiamo permettere altre “defezioni”. Mentre dobbiamo lavorare al meglio per consolidare il modello di produzione distribuita. Il biogas, e più in generale le agrienergie, come Legambiente ricorda ormai da anni non possono ignorare la loro specificità di fonte energetica indissolubilmente legata alle economie agricole locali e ai contesti territoriali. Di conseguenza, il loro sviluppo corretto non può che essere altamente decentralizzato. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, il biogas è stato anche occasione di iniziative speculative (rischio che si ridurrà a partire dal 1 gennaio 2013, visto il nuovo sistema di incentivi sulle rinnovabili elettriche non fotovoltaiche) che poco hanno avuto a che fare con l’uso sostenibile delle risorse naturali dei territori, e in alcuni casi, impianti mal gestiti hanno prodotto forti problemi nell’accettazione sociale anche agli operatori più virtuosi. Ad acuire la confusione, poi, si è aggiunta la preoccupazione per la possibile diffusione di batteri patogeni attraverso il ciclo del digestato e lo spargimento sui suoli del compost di qualità da esso prodotto. A partire da questi aspetti, il documento vuole stimolare la riflessione sul tema e individuare i criteri di riferimento per la valutazione dei progetti per la produzione di biogas su scala locale.
PUNTI DI FORZA DEL BIOGAS Se confrontato con le altre bioenergie, il biogas presenta una serie di punti di forza, tra cui l’elevato rendimento energetico (per esempio rispetto a caldaie e motori a olio vegetale) ed elettrico rispetto al consumo totale di energia (35-40%) e per ettaro coltivato. È poi una fonte energetica complessa che cioè impiega una vasta gamma di materie prime – residui agricoli, zootecnici, agroindustriali, da Forsu (Frazione organica da rifiuti solidi urbani), colture dedicate di primo e secondo raccolto, ma anche fanghi di depurazione – ma che sono ampiamente diffuse su gran parte del territorio italiano. Un aspetto quest’ultimo che ne fa una fonte fortemente legata ai territori e in particolare all’agricoltura. Il biogas, infatti, è in grado di valorizzare i residui che altrimenti verrebbero trattati come rifiuti e che spesso sono una grave fonte di inquinamento (con tecnologia adeguata il digestore sarebbe anche in grado di ridurre le concentrazioni di ammoniaca, producendo fertilizzanti azotati che in questo modo non devono essere prodotti da impianti chimici dedicati). Diversamente dalle altre bioenergie, il biogas può essere trasformato in biometano ed essere immesso nella rete del gas o utilizzato come carburante nei trasporti in sostituzione del metano di origine fossile. Proprio per l’abbondanza di matrici utilizzabili, infatti, il metano da biogas è oggi l’unico biocarburante che consente potenzialmente all’Italia di raggiungere l’obiettivo del 10% di carburanti alternativi al 2020, imposto dalla direttiva UE sulle Fonti Rinnovabili. Inoltre, il residuo di processo (il digestato) conserva la parte organica (lignocellulosica e proteica) e minerale (azoto in particolare) presenti nelle biomasse utilizzate e, se correttamente gestito, è utilizzabile sia come ammendante (apportatore di sostanza organica, fondamentale per la fertilità dei suoli) sia come fertilizzante (apportatore di azoto ammoniacale a pronta cessione) in sostituzione di concimi chimici di sintesi, con notevoli vantaggi ambientali.
I CRITERI PER IL BIOGAS Il criterio fondante per la produzione di biogas è la filiera corta, perché tiene conto del fatto che questa fonte è perfettamente in grado di adattarsi alle risorse e ai sottoprodotti disponibili localmente. I benefici di una filiera corta sono molteplici: di tipo ambientale (riduzione delle emissioni di carbonio prodotte dai trasporti1 ), ma soprattutto di tipo sociale ed economico, a partire dal reimpiego di residui che sarebbero di difficile gestione per il territorio. Gli altri criteri si possono individuare tenendo conto di due specifici tipi di filiere per la produzione di biogas: a) Filiere di produzione industriale del biogas. b) Filiere di produzione agricola del biogas. Queste due tipologie richiedono infatti diverse modalità di organizzazione e fonti di approvvigionamento e si distinguono per dimensioni di impianto.
BIOGAS DA PRODUZIONE INDUSTRIALE Si tratta di filiere dove il biogas è prodotto da Forsu (Frazione organica dei rifiuti solidi urbani) oppure da fanghi di depurazione, da captazione di metano in discarica e da altri scarti di processi agroindustriali di varia natura. In questi casi, soprattutto per ragioni di profilassi, è bene che queste matrici siano destinate a impianti di tipo industriale, dotati di adeguate piattaforme logistiche, perché anche la produzione agroindustriale spesso è frammentata in centri di dimensioni medio-piccole. Questo tipo di filiere industriali sono funzionali per la produzione del biometano che esige impianti di taglia medio-grande (vari MW di potenza) e che giustifichino l’investimento nel successivo processo di raffinazione del biogas (upgrading). Questi impianti non vanno alimentati con colture dedicate e andrebbero collocati in aree industriali attrezzate (anche per utilizzare il calore residuo della produzione elettrica, qualora non si produca biometano) nei pressi delle principali fonti di produzione dello scarto-materia prima. I residui del processo di digestione anaerobica/raffinazione devono essere sottoposti a post-trattamenti come il compostaggio, se la materia prima è costituita da rifiuti (le elevate temperature riducono ulteriormente la presenza di patogeni), oppure trattamenti che conservano gli elementi nutritivi presenti nel digestato (come essiccazione o stripping dell’ammoniaca), che consentono di ottenere ammendanti e fertilizzanti utili all’agricoltura.
BIOGAS DA PRODUZIONE AGRICOLA Il biogas agricolo ha la sua ragion d’essere nell’uso ottimale delle risorse del fondo ed è destinato principalmente a impianti di piccola taglia per la cogenerazione di elettricità/calore: fino a qualche centinaio di kW nel caso di singole aziende, ma vanno favoriti anche impianti di potenza superiore se si tratta di cooperative o consorzi di agricoltori che si associano per gestire nel modo più efficiente la filiera del biogas. La qualità di una filiera di biogas agricolo dipende da: l’origine delle materie prime, l’uso delle colture dedicate, l’uso efficiente del calore, le garanzie per la salute dei cittadini e l’impiego corretto del digestato.
Origine delle materie prime
Data l’elevata redditività del biogas, parecchi investitori, spesso estranei al mondo agricolo, hanno preso in affitto terreni agricoli con l’obiettivo di utilizzare in prevalenza o in toto le materie prime a più alto rendimento, ossia gli insilati di colture dedicate: sorgo, triticale ma soprattutto mais. Se da un metro cubo di liquame suino infatti si possono ottenere in media 16 m³ di biogas, da un metro cubo di silomais se ne ottengono 4 volte tanto: 68 m³ di biogas. Il rendimento in energia per ettaro del silomais (20-26 MWh e/ha) consentiva, con gli incentivi precedenti al nuovo decreto sulle rinnovabili di luglio 2012, un ricavo lordo annuo di 5.500-7.500 euro/ha. E’ evidente che nessun seminativo per usi alimentari oggi può consentire simili ricavi. Questa rincorsa alle più alte rese del silomais genera due effetti negativi: l’occupazione delle terre irrigue migliori (con un rilevante uso di acqua) e la lievitazione eccessiva dei canoni di affitto dei terreni agricoli, come di fatto sta avvenendo in Emilia, Lombardia e Veneto. Con questo approccio è inevitabile che la produzione di biogas vada a detrimento delle produzioni alimentari.Il primo criterio del biogas sostenibile è che le materie prime derivino principalmente dal fondo di proprietà del gestore e che la loro produzione sia fatta in integrazione e non in sostituzione della produzione agricola tradizionale.
Uso delle colture dedicate
In generale è corretto privilegiare l’uso di scarti provenienti dalle colture o dagli allevamenti aziendali (stocchi di mais, pula, paglia, sfalci, potature, effluenti zootecnici) e di sottoprodotti del ciclo agricolo tradizionale (es. siero di latte, sansa, residui della vinificazione), ma anche le colture dedicate possono dare un contributo virtuoso, a determinate condizioni.
Non è detto infatti, che le colture energetiche dedicate debbano necessariamente togliere spazio alla produzione di cibo.
Nell’ultimo decennio in Italia sono state abbandonate molte terre coltivabili: 300.000 ettari secondo i dati provvisori dell’Istat, ma in realtà sono molto di più, perché l’Istat detrae solo i terreni che non figurano più come superficie agricola utilizzata (SAU). Secondo stime non ufficiali, infatti, e ampiamente condivise all’interno del mondo agricolo e degli enti preposti, gli ettari di terre coltivabili abbandonate tra il 2000 e il 2010 sono ben oltre un milione. Una parte di questi terreni è stata cementificata e quindi irreversibilmente persa, ma la parte prevalente sarebbe tuttora coltivabile sia per usi alimentari che per altri usi.
Il discorso allora non è solo ‘quanto’ ma ‘come’ e ‘dove’ fare colture dedicate. Queste infatti si possono fare in modi molto diversi e con risultati opposti dal punto di vista agroecosistemico. L’inserimento di colture dedicate andrebbe valutato in base a tre criteri prioritari:
- consumi di acqua e di input energetici (concimi, diserbanti, antiparassitari, lavorazioni meccaniche)
- incremento della sostanza organica (SO) nel suolo
- aumento della biodiversità del fondo agricolo
Se non è accettabile l’uso energetico di colture idroesigenti o ad alti input chimici come il mais, esistono altre colture, spesso inseribili in secondo raccolto come ad esempio i cereali minori, trifoglio, erba medica, sorgo, che possono soddisfare quei criteri se rispettano almeno una delle seguenti condizioni:
- colture in avvicendamento con produzioni alimentari o colture di copertura. Sono due pratiche che possono favorire
l’incremento di sostanza organica nel suolo, a beneficio delle stesse colture alimentari, e al tempo stesso
migliorare la ritenzione idrica nel suolo e ridurre i rischi patogeni per le piante; - utilizzo di terreni agricoli abbandonati o marginali. L’inserimento di colture energetiche su questi terreni con
colture ad alta efficienza di carbonio, anche pluriennali (ad es. canna comune), aumentando la produzione lorda
vendibile (PLV) dell’azienda agricola, anziché fonte di competizione col cibo, può essere l’opportunità di riavviare
colture alimentari, che oggi di per sé non darebbero reddito sufficiente, e sostenere l’agricoltura di montagna e di
collina.
Uso efficiente del calore
Una quota importante di energia prodotta dalla cogenerazione a biogas è sotto forma di calore che, in minima parte, è utilizzabile per riscaldare il digestore. È però importante prevedere, in fase di progetto, un utilizzo concreto di una quota del calore restante per il riscaldamento di edifici e locali o eventualmente di altri impianti di lavorazione.
Garanzie per la salute e per l’impiego corretto del digestato
Di recente, oltre alla denuncia degli odori sgradevoli emessi da alcuni impianti, si è diffuso il sospetto che la digestione anaerobica e il successivo spandimento del digestato sui terreni possano favorire lo sviluppo di microrganismi dannosi per la salute umana o per produzioni alimentari di pregio.3 Il sospetto, almeno per quanto riguarda la salute umana, non ha fondamento (quantomeno è assai minore del rischio di contaminazione da cibi di ristorazione collettiva o da spandimento di letame). Secondo vari studi condotti sin dagli anni Ottanta, la digestione anaerobica mesofila (35°) e termofila (50°) riduce significativamente il numero di molte famiglie batteriche e un processo preventivo di pastorizzazione a 70° per un’ora (come prescritto per legge nel caso di utilizzo di residui da macello) è in grado di neutralizzare i principali batteri patogeni come Escherichia Coli, Salmonella spp ed enterococchi. Quindi in generale l’uso del digestato al posto del letame, o peggio dei reflui tal quali, aiuta a ridurre il rischio di batteri patogeni.Diverso è il caso delle spore di Clostridi, una grande famiglia di batteri anaerobi ubiquitari (sono presenti normalmente anche nel nostro intestino e sono tra i principali attori della fase di idrolisi del biogas) che comprende anche specie responsabili dell’alterazione dei formaggi e specie che possono provocare infezioni più o meno gravi, compresi botulismo e tetano. I Clostridi, in condizioni ambientali particolari, formano spore resistenti al calore, alla radiazione e a diversi agenti chimici, per cui anche la pastorizzazione risulta inefficace. Ma il rischio riguarda più la qualità dei formaggi che la salute umana.
In ogni caso, per la sicurezza igienico-ambientale degli impianti, le condizioni essenziali da garantire sono:
- omogeneità e tracciabilità delle materie prime in ingresso: l’autorizzazione a nuovi impianti va vincolata al rispet-to
di poche e precise tipologie di materie prime in ingresso e alla garanzia della loro provenienza. Nel caso di sottoprodotti
di origine animale va assicurato il rispetto di quanto imposto dalla nuova normativa europea (Reg. CE
1069/2009) che garantisce lo stato igienico-sanitario di tutta la filiera; - adeguati sistemi di ricezione e stoccaggio delle materie prime e di alimentazione del digestore, digestore con va-sche
chiuse in modo da evitare emissioni di cattivi odori. Va chiarito infatti che un impianto gestito correttamente non emette odori particolari. La principale fonte di cattivi odori può provenire dalle materie prime in ingresso all’impianto (spesso fermentescibili, come reflui zootecnici e insilati) se non si adottano buoni sistemi di stoccaggio e di alimentazione e di gestione del’impianto; - Adeguati sistemi di stoccaggio e copertura del digestato per evitare emissioni residuali di metano;
- Rispetto di tutte le disposizioni previste per l’uso agronomico del digestato con particolare attenzione ai divieti temporali e spaziali e adozione delle migliori tecniche disponibili per la distribuzione (distribuzione a bassa pressione, localizzata, interramento immediato ecc.);
- in alternativa – soprattutto nelle zone sensibili ai nitrati (che coincidono spesso con le aree a maggior concentra-zione di impianti) – trasformazione del digestato in fertilizzanti (solfato ammonico, ottimo sostituto di urea e/o digestato essiccato ricco di sostanza organica stabilizzata) trasferibili su terreni poveri di azoto. Il trattamento dei digestati in impianti centralizzati (consortili o di altro tipo) consente di raggiungere risultati ottimali sia dal punto di vista tecnico che economico. Questo non risolve, come si è detto, l’eventuale presenza di spore di clostridi, ma riduce al minimo la carica di altri batteri patogeni;
LE PROPOSTE POLITICHE
Con compiti e ruoli diversi, tutti i livelli di Governo (Stato, Regioni, Province e Comuni), hanno la responsabilità
di assicurare la corretta realizzazione degli impianti sul territorio. Le tre scelte prioritarie in questa direzione sono:
- Modifica della normativa nazionale
Uniformare il quadro legislativo su processi autorizzativi e incentivi ai principi ai criteri di sostenibilità e
efficienza del biogas da produzione agricola, di uso efficiente della terra, dell’energia e della biomassa in
ingresso. - Linee guida per la progettazione degli impianti
Le Regioni devono approvare dei criteri per i progetti da sottoporre a Valutazione di Impatto Ambientale, in modo
da spingere scelte di localizzazione coerenti con i vincoli ambientali e con le vocazioni dei territori, e realizzare
solo impianti che diano garanzie rispetto alla gestione, all’approvvigionamento delle materie prime, all’efficienza
della produzione, agli aspetti sanitari e di sicurezza. In questo modo si potranno dare certezze agli imprenditori
seri e garanzie ai cittadini e alle amministrazioni comunali che vengono spesso escluse dai processi decisionali. - Emanare le necessarie normative per l’immissione del biometano in rete
- Pianificazione energetica di area
È fondamentale che le province e i comuni collaborino a una pianificazione energetica di area. I pianienergetici, in linea di principio, non hanno valore cogente e non possono impedire le localizzazioni degli impianti dei privati, ma permetterebbero di dichiarare di quante e quali risorse naturali ogni territorio dispone per usi energetici. Pertanto, i piani energetici d’area potrebbero offrire strumenti più idonei alla popolazione e agli investitori per valutare la sostenibilità complessiva dei progetti che insitono su uno stesso territorio. Questo criterio vale per tutte le bioenergie: non è più ammissibile il proliferare incontrollato di progetti sullo stesso territorio, col risultato di creare sospetti e opposizioni crescenti tra la popolazione.
Fonte Legambiente – www.legambiente.it